29 novembre 2021
29 nov 2021

100 mesi senza Paolo Dall’Oglio

100 mesi senza Paolo Dall’Oglio
Il 29 luglio 2013 veniva rapito a Raqqa, in Siria, il padre gesuita Paolo Dall’Oglio. Da allora di lui non si è più avuta notizia certa. A cento mesi da quel giorno, Riccardo Cristiano ricostruisce il fatto e la tempra cristiana della figura.
di  Riccardo Cristiano
Settimananews
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Cento mesi sono tanti. Credo sia importante ricordarsene, anche perché, da allora, tantissime sono le cose che sono accadute in Medio Oriente e che ci riportano a quanto lui aveva già visto, detto, scritto.

Sino ad allora, soprattutto nei mesi precedenti, padre Paolo ci aveva parlato della tragedia dei deportati siriani e del dramma dei curdi di quelle terre a cavallo tra Siria ed Iraq. Non originano forse da quei tempi e da quelle parti il mare di profughi comparsi in Europa lungo la rotta balcanica nel 2015, il drammatico uso di altri profughi, in gran parte siriani, al confine tra la Turchia e la Grecia nel 2020, l’orrore che infiamma ora il confine tra la Bielorussia e la Polonia?

La rimozione

Dal 2015 un dramma rimosso tormenta la storia contemporanea senza che venga adeguatamente citato, capito, affrontato. La maniera giusta per farlo c’è. Gli aspetti da evocare sono diversi: bisogna avere il coraggio di elencarli tutti, con chiarezza, senza ipocrisie. Per questo è fondamentale fare riferimento a Paolo Dall’Oglio.

Della sua vicenda sempre colpisce che venga citata per l’esito e non per la causa, ossia se sia morto − e quindi chi lo abbia eventualmente ucciso −, piuttosto del perché sia stato sequestrato. È certo. Padre Paolo è stato sequestrato il 29 luglio 2013 a Raqqa, dai jihadisti dell’Isis. Un anno prima era stato espulso dal regime di Assad.

La sua espulsione era stata accompagnata da straordinari raduni di protesta in Siria, persino da parte di militanti dei Fratelli Musulmani. Sappiamo: lui ha voluto rientrare da clandestino in quello che considerava il suo Paese: una prima volta per andare a pregare sulle fosse comuni disseminate dal regime nella valle dell’Oronte, da cui sono stati deportati milioni di siriani; una seconda volta per recarsi a Raqqa.

A Raqqa Paolo è stato sequestrato − per quanto ci è dato sapere − in modo anomalo. Non è stato preso con la forza, prelevato da una casa o da un’auto. No. Sappiamo che si è recato lui, con le sue gambe e più volte, al quartier generale dell’Isis, dove non lo volevano ricevere. Solo dopo il tentativo del 29 luglio, in tarda mattinata, si sono perse le sue tracce: questo affermano coloro che lo compagnavano in quei giorni. Dunque, si è trattato − sì − di un sequestro, ma di un sequestro assai anomalo.

A lungo si è detto che lui volesse chiedere il rilascio di alcuni ostaggi. La tesi, molto accreditata, mi ha sempre sorpreso. Perché quelli dell’Isis avrebbero dovuto ascoltarlo? Solo perché era apprezzato da molti nelle comunità islamiche del posto?

Questa tesi avevo compreso dentro di me, perché Paolo, poche ore prima di partire dalla Turchia − ove si era recato dal convento di Sulaymaniah nel Kurdistan iracheno per poi raggiungere Raqqa − aveva scritto a me e ad altri amici di aver «accettato» di andare a Raqqa. Solo in seguito ho riflettuto meglio sul verbo e sulla sua coniugazione usata: ha scritto proprio «accettato».

Le ragioni

La persona che lo accompagnava il giorno del sequestro − un caro amico di padre Paolo − sostiene una tesi importante, altresì diversa dalla versione che qui ho ricordato. Ho saputo infatti da altri amici che quella persona, inascoltata dai più, su Facebook, da tempo sostiene che padre Paolo stava portando con sé una lettera dei vertici del Kurdistan iracheno indirizzata ai capi dell’Isis. Si stava giocando un conflitto che ha portato, come è noto, all’espulsione di migliaia di cristiani, al genocidio degli yazidi, alla feroce guerra tra l’Isis e i curdi.

Il racconto dell’accompagnatore fa quindi pensare che i capi del Kurdistan iracheno avessero scelto Paolo ritenendolo, con ogni probabilità, uno dei pochi in grado di accettare e compiere quella assai rischiosa azione: recapitare in segretezza la missiva. Dunque, gli sarebbe stato consegnato quel documento. E lui? Non sapeva forse che sarebbe stato molto pericoloso andare a consegnarlo in una sede ove nessun estraneo avrebbe potuto entrare di propria iniziativa? Certo che lo sapeva! Ha perciò lasciato ai suoi amici le seguenti parole: «Se non torno entro tre giorni date l’allarme!».

I fatti così cominciano ad acquisire in me un loro senso. Mi viene anche ora da pensare che quel limite temporale indicato in «tre giorni», non fosse casuale e che quindi non escludesse una certa lettura da parte dei destinatari della missiva. Paolo sapeva che quella lettera non era altro che la debole ricerca di scongiurare una mattanza: una delle pagine più oscene della storia recente. Non poteva desistere.

E infatti non ha desistito. Molti in quei giorni hanno desistito. Molti in quei giorni sono tornati nel sicuro del proprio spazio di protezione o in qualche spazio − non proprio − a farsi proteggere. Molti hanno chiuso porte e finestre, hanno alzato palizzate, abbassato tapparelle. Paolo, no.

La testimonianza

Più passa il tempo, più mi convinco che l’autentica «essenza» del caso Dall’Oglio sia in ciò che ora meglio ricostruisco o che questa ne sia, comunque, un importante tassello. È davvero importante capire sino in fondo.

Cento mesi dopo, infatti, non mi interessa tanto sapere cosa potessero suggerire i vertici del Kurdistan iracheno, bensì capire le ragioni della sua accettazione dell’incarico: perché?

Perché in questo modo Paolo Dall’Oglio ha testimoniato ad ogni cristiano − soprattutto ad ogni cristiano siriano, ma anche iracheno e non solo − la risposta alla domanda che lui stesso rivolgeva con insistenza: «Perché Dio ci ha voluto qui?».

Tra le ombre di quelle palizzate che salivano, di quelle tapparelle che scendevano, di quelle sagome che si voltavano, la sua risposta è risultata così chiara, trasparente, a differenza di tutto ciò che di poco chiaro − o decisamente oscuro − ancora non ci consente di conoscere la sua sorte.

Mi chiedo e chiedo un po’ a tutti, oggi, se la risposta alla domanda sul senso della presenza cristiana in quelle terre non fosse altra che di essere lì per tutti, nessuno escluso: altrimenti quale sarebbe?

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