23 dicembre 2025
23 dic 2025

«E tu vieni da me?» (Mt 3,14)

Lettera del Superiore Generale, P. Carlos Luis Suarez Codorniú, scj, in occasione delle festività natalizie 2025, ai membri della Congregazione e a tutti i membri della Famiglia Dehoniana.

di  The Superior General and his Council

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L’anno che volge al termine ci ha permesso di celebrare il centenario della morte di P. Leone Dehon. Attraverso diverse iniziative abbiamo reso grazie a Dio per il dono della sua vita e del suo carisma. Inoltre, fino al 2028, quando celebreremo il 150° anniversario della fondazione della Congregazione, siamo stati invitati a vivere «un periodo di profondo rinnovamento spirituale e vocazionale per ogni religioso della Congregazione e per ciascun membro della Famiglia dehoniana».

Per favorire questo cammino, una risorsa indispensabile è l’accostamento frequente e riflessivo alla vita e all’opera di P. Dehon. A questo proposito, ora che ci apprestiamo a celebrare la nascita del Redentore, è opportuno ricordare un’esperienza molto particolare vissuta dal giovane Leone Dehon, che ha orientato in modo decisivo la sua vita. Egli stesso la racconta nelle sue memorie. Aveva appena tredici anni. Era la notte di Natale e serviva all’altare nella cappella dei Cappuccini a Hazebrouk:

«Lì ricevetti una delle impressioni più forti della mia vita. Nostro Signore mi esortò con forza a donarmi a lui (…). Ebbi l’impressione che la mia conversione risalisse a quel giorno. Come posso esprimere tutta la mia gratitudine all’adorabile Bambino Gesù!» (NHV 1/52)

Fu intensa così quell’esperienza che, appena due anni prima della sua morte, P. Dehon volle nuovamente lasciare testimonianza del segno che quel Natale aveva lasciato in lui:

«Provo una gratitudine sconcertante nel vedere come Nostro Signore abbia preparato e custodito in modo così meraviglioso la mia vocazione».

A partire da questa gratitudine e dalla consapevolezza di P. Dehon riguardo alla chiamata che Dio gli ha rivolto, vi invito ad accostarvi al mistero di ciò che stiamo per celebrare.

«Una gratitudine sconcertante»

Un elemento che caratterizza le figure più significative della narrazione biblica, dall’Avvento al Battesimo del Signore, è lo sconcerto diffuso che esse hanno vissuto. Per nessuno di loro è stato facile assumere ciò che è accaduto attorno all’incarnazione del Verbo.

Giunto il momento opportuno, Dio, fedele al suo stile, ha voluto — «come in principio» — la partecipazione di alcuni collaboratori per dare un volto umano alla sua Parola più intima e definitiva: Gesù. Tra gli altri, ha scelto una coppia di anziani irreprensibili ma senza discendenza; una giovane coppia di fidanzati, con quasi tutto ancora da fare; stranieri audaci e attenti, in cammino per giungere al luogo desiderato, come tanti oggi che attraversano mari e strade nella notte; ha voluto anche contare su lavoratori dei campi, gente dai piedi induriti e dal sonno leggero, abituata a lunghe veglie al chiarore dei fuochi — fuochi che oggi illuminano le paure e le angosce dei profughi di tante guerre e violenze.

Dio ha persino contato sulla collaborazione di uno che era ancora nel grembo materno. Il suo nome era Giovanni, come aveva stabilito sua madre. Fu un vero campione della speranza. Prima ancora di nascere e fino alla fine dei suoi giorni, si consacrò pienamente all’annuncio del Messia. La sua vita e la sua predicazione non lasciarono nessuno indifferente. Un giorno, mentre battezzava lungo il fiume Giordano, Gesù gli venne incontro. Pur avendolo annunciato con fedeltà e convinzione, il Battista non si aspettava che il Messia giungesse a lui nel modo in cui lo fece: con semplicità, senza clamore né fuoco tra le mani, senza difese, circondato soltanto da persone desiderose di vivere secondo la volontà di Dio. Giovanni non stava più in sé per lo stupore. La sua gioia e il suo sconcerto confluirono in un’unica domanda: «E tu vieni da me?» (Mt 3,14).

Quale disposizione migliore per contemplare e celebrare il mistero della venuta del Signore, se non permettere che questa stessa domanda continui a risuonare in noi? Essa aiuta, in qualche modo, a rendere ragione del Gesù nel quale ciascuno spera: che cosa lo caratterizza? Come lo annunci? Come e dove lo riconosci? In che modo la sua vita e il suo messaggio incidono sul tuo progetto personale, sulla tua vita fraterna e sulla tua azione pastorale? Nella ricerca delle risposte, possono aiutarci alcune recenti parole di Papa Leone XIV:

(…) non basta limitarsi a enunciare in modo generale la dottrina dell’incarnazione di Dio; per entrare seriamente in questo mistero, è invece necessario precisare che il Signore si fa carne: carne che ha fame, che ha sete, che è malata, incarcerata. «Una Chiesa povera per i poveri comincia andando verso la carne di Cristo. Se andiamo verso la carne di Cristo, cominciamo a capire qualcosa: che cos’è questa povertà, la povertà del Signore. E questo non è facile». (Dilexi te, 110)

Così lo comprese Giovanni Battista e così lo fece sapere a coloro che gli chiedevano che cosa dovessero fare per salvarsi (cfr. Lc 3,10-14). Molti di quelli che lo ascoltarono rimasero sconcertati e lontani da ogni forma di gratitudine. Ben diversa, invece, è la consapevolezza riconoscente che Gesù, incarnato nella storia, maturò riguardo alla propria missione:

«In quel tempo Gesù disse: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”» (Mt 11,25).

«Come meravigliosamente Nostro Signore ha preparato e custodito la mia vocazione»

La vocazione, come l’incarnazione del Verbo, ha sempre un prima e un dopo, come ogni evento umano. La Parola ascoltata lungo l’Avvento ha progressivamente mostrato come Dio abbia preparato i collaboratori sopra menzionati. Nonostante la missione impegnativa, essi finirono per esprimere gioia per l’invito che Dio aveva loro rivolto: Zaccaria, con una voce maturata nel silenzio, benedisse il Signore; Elisabetta, liberata dalla sua umiliazione, riconobbe l’opera di Dio nella sua parente; Maria, radicata nella misericordia divina, pronunciò un sì senza limiti; Giuseppe, superate le incertezze, compì passi decisi per prendersi cura della sua famiglia; i viaggiatori d’Oriente, affascinati dal vero tesoro, non cedettero agli inganni di un sovrano dispotico; i pastori, come messaggeri del Cielo, annunciarono la buona notizia. E Giovanni? Continuò a sostenere la speranza del suo popolo, fino al martirio, come molto tempo dopo fece anche il nostro fratello P. Martino Capelli, SCJ, riconosciuto degno di essere prossimamente beatificato.

Vediamo dunque che la trasformazione avvenuta nei collaboratori di Dio comportò il superamento di resistenze e incomprensioni, sia personali sia altrui. Anche Giovanni ne fece esperienza. Il Battista, infatti, tentò di dissuadere Gesù dal suo proposito di ricevere il battesimo d’acqua che egli amministrava ai peccatori.

Perché accade che, tra coloro che sono più vicini a Gesù — tra quelli «che seguono più da vicino l’abbassamento del Salvatore» — sorga così spesso il tentativo di distoglierlo dalla volontà del Padre? È forse per alleggerire il peso, per rendere più leggera la missione del Figlio, oppure per evitare rischi o conseguenze indesiderate nella vita di coloro che lo seguono? In un certo senso, anche Maria e Giuseppe ci provarono (cfr. Lc 2,48-50), e Maria lo fece nuovamente insieme ad altri parenti (cfr. Mc 3,31-35). L’apostolo Pietro, da parte sua, non fu da meno. Si oppose apertamente al cammino di Gesù quando egli annunciò le conseguenze che avrebbe comportato la sua totale fedeltà al Padre (Mt 16,22). Tuttavia, nella logica del Regno, nella comprensione che Gesù ne ha, solo chi perde la propria vita — solo chi la offre per il Regno del Padre — la guadagna.

Così P. Dehon cominciò a comprendere la propria vocazione, a partire da quanto visse in quella notte di Natale del 1856: «Sentii la vocazione divina fin dalla prima notte di Natale (…) e non ho mai vacillato da allora» (NQT 44/128). Questa certezza, custodita e coltivata lungo tutta la sua vita, lo trasformò progressivamente in un appassionato collaboratore della causa del Regno.

Tornando ripetutamente alla contemplazione del mistero del Natale, P. Dehon ci rivela che il suo desiderio più profondo andava ben oltre l’essere un apostolo rinomato o un attivista fecondo sui social media, come si direbbe oggi. La sua aspirazione più grande era un’altra: essere figlio, gioire del Padre misericordioso che si rivelava nella sua vita, e camminare come fratello di Gesù incontro a tutti:

Rimarrò in uno stato abituale di gratitudine e di amore filiale verso di te, o mio Dio, che mi hai dato la tua somiglianza nella creazione e mi hai fatto tuo figlio. Comprendo e desidero vivere questa parola di san Paolo: “Vivete come figli amati” (Ef 5,1). Figlio di Dio! Che titolo meraviglioso! Come potrei non amarti, o Padre mio, con tenero e filiale amore! (CAM 1.31)

Chiediamo che questo Natale ci rinnovi nella gratitudine. Che il Redentore, nato a Betlemme, non smetta mai di sorprenderci — e persino di sconcertarci — affinché ravvivi in noi l’inquietudine della vocazione di amore e di riparazione alla quale ciascuno di noi è stato chiamato. Che, nella varietà degli stati di vita che ci uniscono nella Famiglia dehoniana, sappiamo vivere come figli e figlie di Dio, particolarmente attenti ai più vulnerabili e feriti nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie e ovunque Dio ci aiuti a riconoscerli.

Nel Cuore del Principe della Pace, buon Natale e felice anno nuovo.

Carlos Luis Suarez Codorniú, scj

Superiore generale

e suo Consiglio

 

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