08 giugno 2018
08 giu 2018

La festa del Sacro Cuore

di  Carlos Enrique Caamaño Martín, scj

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Per noi dehoniani, la celebrazione della festa del Sacro Cuore è l’atto con cui riconosciamo ciò che il Cuore di Gesù ha fatto e continua a fare ogni giorno in ognuno di noi, come singoli religiosi, nell’insieme della Congregazione, ma anche nella Chiesa intera. L’amore di Dio è un dono perpetuo, è la grazia fondamentale del nostro essere qui come figli e figlie di Dio.

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Vorrei approfittare di questa occasione per unirmi a papa Francesco, dopo la sua ultima esortazione apostolica intitolata: “Gaudete et exsultate”, e con il sottotitolo “sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo”, per indirizzare a tutti noi una provocazione in questa festa del Cuore di Gesù, per ricordare che siamo sempre chiamati alla santità, ma anche per riconoscere che quel tesoro di cui parlava il nostro caro fondatore p. Dehon, è indubbiamente la nostra fonte inesauribile di santità.

Il Cuore di Gesù è anzitutto la nostra fonte continua di santificazione e salute spirituale. Il Cuore di Gesù è la sorgente di tutta la santità della Chiesa. E noi particolarmente siamo chiamati ad entrare in questa grazia ogni giorno, nella nostra oblazione, nella celebrazione dell’eucaristia, nell’adorazione, e anche nella missione e in tutte le attività che favoriscono la nostra santificazione. Possiamo dire che anche nelle attività di studio dobbiamo trovare la santità.

E come dice l’esortazione, in un numero che mi sembra molto dehoniano: “La santificazione è soprattutto un cammino comunitario, da fare a due a due. La comunità è chiamata a creare quello spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto. Condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria”.

Credo che questo anno, un po’ giubilare per noi, 140 della fondazione della Congregazione, e 175 della nascita di p. Dehon, sia una bella occasione per mostrarci così come siamo, uomini imperfetti davanti a colui che hanno trafitto. Un anno per esercitare l’umiltà che non è cosa diversa da quella capacità di entrare dentro di noi, di parlare faccia a faccia con le nostre miserie, con la nostra terra, con ciò che siamo. Questa capacità che ci permette di scoprire che siamo un humus: terra fragile, terra lavorabile, che siamo umani. Si tratta di fare un viaggio interiore guidati dallo Spirito di Dio, che ci aiuti a capire che anche gli altri, i miei fratelli, hanno delle debolezze, ecco perché l’umiltà ci rende tolleranti, comprensivi, misericordiosi verso tutto ciò che è umano, perché l’altro è simile a me.

E in mezzo a questa esperienza umana scoprire che lì, nel più profondo di me stesso, posso sperimentare: La pienezza di Dio (Ef, 3,19), il suo amore immenso, la forza della sua santità.

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