26 aprile 2024
26 apr 2024

 XXV Capitolo generale: aperture alla teologia

In preparazione al XXV capitolo generale, abbiamo chiesto ad alcuni dehoniani di scrivere riflessioni . P. Juan José Arnaiz Ecker riflette sul tema della “trasformazione"

di  Juan José Arnaiz Ecker, SCJ

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Introduzione

Durante l’ultimo raduno della Commissione Teologica Internazionale Dehoniana (CTID) a Roma, all’inizio del dicembre 2023, la CTID ha avuto la possibilità di incontrare la commissione preparatoria del prossimo capitolo generale. Nel dialogo tra le due commissioni è nata l’ idea di riflettere più approfonditamente sul tema del prossimo capitolo generale: Chiamati ad essere uniti in un mondo in trasformazione “Affinché essi credano” (Gv 17,21).

Il compito di una riflessione teologica sui diversi elementi del contenuto del tema capitolare è stato rivolto poi ai membri delle diverse commissioni teologiche continentali, operanti nei cinque continenti dell’attuale presenza dehoniana nel mondo. Il frutto del lavoro di questi nostri confratelli sono brevi articoli, una sorta di sussidio messo a disposizione online per i nostri lettori.

Lo scopo principale è di accompagnare i confratelli e a la Famiglia Dehoniana in questi mesi che precedono il XXV Capitolo Generale. Ci auguriamo che questa iniziativa sia uno strumento utile non solo per incamminarci verso il capitolo, ma anche per aprire il nostro cuore e la nostra mente a questo evento che coinvolge tutti noi.

P. Artur Sanecki SCJ


P. Juan José Arnaiz Ecker SCJ presenta la portata teologica del tema del prossimo Capitolo Generale, sottolineando gli aspetti della vocazione, carisma e della missione. Una domanda importante è: “che cosa dobbiamo trasformare in noi e nella Congregazione per servire oggi il Regno del Signore Gesù e l’umanità?” 


Durante il raduno della Commissione preparatoria del XXV Capitolo generale avuto nel novembre 2023, abbiamo potuto condividere con i membri della Commissione teologica internazionale dehoniana (CTID) un tempo di scambio riguardo alla portata teologica che hanno le tematiche incluse nel motto, che tenta di animare l’assemblea capitolare, l’autorità più alta della Congregazione.

Lo slogan capitolare: “Chiamati ad essere uno in un mondo in trasformazione perché possano credere”, ha tentato di collegare e rileggere in un unico movimento anzitutto due dei nostri grandi binari spirituali e teologici: da un lato, l’identità-vocazione dell’evento della nostra personale e comunitaria chiamata da parte del Signore; dall’altro, la comunione come speciale vocazione dehoniana a “essere uno”; infine a comprendere la portata missionaria di Gv 17,20: “perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”.

L’uso ripetuto del “perché” e dei verbi al congiuntivo al futuro non sottolineano una immobilità (un “capolinea“), ma, al contrario evocano dinamismo e chiamata alla mobilitazione. Per questo, all’interno del grande spazio che ci offrono i binari del sint unum (come anelito, ma anche come grido di allarme proveniente da un diffuso senso di smarrimento e della missione (“perché il mondo creda”), al centro della nostra proposta come Commissione si colloca il verbo “trasformare”, sia come sfida ai religiosi e alle strutture della Congregazione, sia inevitabilmente come tema teologico.

Nella previsione della dinamica capitolare è emersa una grande e sintetica domanda, e cioè: che cosa dobbiamo trasformare nella nostra Congregazione per servire oggi il Regno del Signore Gesù e l’umanità?

Il Capitolo dovrà contribuire certamente a identificare che cosa debba essere trasformato in tutta la Congregazione come corpo, ma anche in ciascuna delle entità, perché si possa raggiungere una certa stabile comprensione del proprium della nostra vocazione. Aggiungendo però una sfumatura importante. Questa stabilità e certezza deve essere strumentale, cioè deve aiutarci a preparare lo spazio in cui trovare il Cristo. Egli, partendo da questa rinnovata coscienza di noi stessi, la supererà attraverso il suo andare dentro le trasformazioni del mondo. Infatti, è lì che si fa trovare oggi e ci aspetta per una nuova stagione.

Allo scopo di tentar far dialogare con la teologia la proposta che il tema capitolare porta in sé, abbiamo trovato una fonte di ispirazione nel libro del 2022 di Tomáš Halík, Pomeriggio del cristianesimo, che ha come sottotitolo “Il coraggio di cambiare”, tradotto in altre lingue come “A coragem de mudar”, “The Courage to Change”, “Valor para la transformación” o anche “Eine Zeitansage”. Nel confronto con questa lettura si possono ricavare alcune tematiche di stampo teologico che si potrebbero prendere come possibili sviluppi di riflessione, ma soprattutto di ripercussione esistenziale.

Così, forse, questo tempo capitolare, in cui ormai ci troviamo, sarà anzitutto il momento di riprendere il grande concetto evangelico di trasformazione che si trova nella parola metanoia, pronunciata da Gesù all’inizio del suo ministero, come cambiamento, come appello esistenziale, che chiama in causa in primo luogo ogni persona, per diventare soltanto dopo soggetto comunitario. In effetti, nella “vita in Gesù”, nella “vita nello Spirito” (cioè nel “nascere di nuovo” di Gv 3,1-21) si opera la trasformazione richiesta del Signore. In questo senso, una teologia spirituale dehoniana diventa una sfida sempre in via di sistematizzazione, di sintesi, di proposta applicabile… perché è lì che si trova per noi (co-chiamati con p. Dehon a percorrere questa strada disegnata per noi dallo Spirito datore di vita) il dinamismo, l’energia di ogni trasformazione, ad incominciare dal vissuto di fede stesso, declinato nel nostro caso come confiance di base, come “puro amore”.

È così che l’eredità dehoniana è tutta un cantiere da riscoprire (mi azzarderei ad aggiungere: grazie a Dio); almeno le fonti sono state aperte (tutto l’universo ‘Dehondocs” è il grande strumento, vasto nei contenuti, come vasto è il suo non esser conosciuto). Rimane sempre la salutare sfida dell’interrogarsi su come appropriarci adeguatamente di questa nostra eredità. A mio avviso, l’atteggiamento intellettuale ed esistenziale ha sempre bisogno di riconoscere e cercare in continuazione in questa eredità la corrente viva di trasmissione creativa e di testimonianza, uno strumento di ri-contestualizzazione e di re-interpretazione di questo nostro mondo in trasformazione.

In questa sfida di trasformazione sembra che noi abbiamo già un traguardo chiaro, insieme a tante circostanze che tendono ad oscurarlo. La nostra meta di trasformazione è stata, è, e sarà Cristo. Per questo risulta possibile insistere, sotto forma di domanda, su un’espressione del Fondatore che è anche ripresa dalle nostre Costituzioni (cf. Cst. 5): che cosa contiene o può contenere l’espressione dehoniana messe perpétuelle alla luce di una riflessione sulla trasformazione?

Sicuramente ci sono parecchie strade di ricerca da percorrere, ma prendendo la dinamica pasquale della fede in Cristo, l’espressione di padre Dehon potrebbe raccogliere, sia come fatto sia come domanda sulla portata della trasformazione proposta, contenuti teologici come questi:

  1. Incarnatio continua, cioè come essere preparati perché Cristo continui ad entrare in modo creativo (in una creatio continua) nel corpo della nostra storia, nelle nostre diverse culture, senza dimenticare che lo fa in un modo discreto e nascosto come accaduto nell’incarnazione e nella vita nascosta.
  2. Passio continua, cioè come accettare che ci siano delle forme – strutture, apostolati, stili di vita, allontanamenti dal vissuto dei voti… – che stanno dolorosamente morendo, e che questo morire include ore oscure di abbandono, di disorientamento, di peccato, di “discesa agli inferi”… per scoprire che il nostro cammino si chiama kenosi, oblazione di noi stessi, o trasformazione in Cristo.
  3. Resurrectio continua, cioè come non cercare più il Cristo tra i morti, ma scoprire in questo “mondo in trasformazione” il Signore glorioso, trasfigurato, che ci mostra di nuovo le sue ferite “perché crediamo”; il Signore che fa accessibile il suo Cuore per mostrare che l’Amore non è un attributo di Dio (come ad esempio la misericordia), ma la sua essenza, il suo Nome.
  4. Pentecostes continua, cioè come parlare in un modo nuovo che possa essere capito da persone di culture diverse, come imparare a parlare con chiarezza (ma senza semplicismi), a capirci vicendevolmente, a parlare con credibilità, da cuore a cuore, generando spazi di incontro e conversazione, di riconciliazione e di pace.

La domanda è se tutta questa dinamica non sia raccolta nel mistero eucaristico (come appare, se si vuole, in Cst. 83), includendo anche questa continuità, questo dinamismo, questo “perpetuarsi” in avanti evocato dal verbo “trasformare”.

Un altro ambito tematico lo possiamo trovare nella ricerca e discernimento dei segni dei tempi in una cultura secolare che, da un lato, abbandona le religioni (indifferentismo), o che, dall’altro, le vive in un modo vincolato ad altri aspetti che possono oscurare o contraddire la fede che le abita (fanatismo). Si tratta dunque della domanda su come ascoltare (e seguire-servire) Dio nel tempo che viviamo, culturalmente caratterizzato da un processo di globalizzazione (chiamato ad essere trasformato in un vero processo di comunicazione e scambio); un mondo che vogliamo sia trasformato in uno spazio ospitale, abitabile, “casalingo”; un mondo che richiede il nostro ministero della riconciliazione (da riscoprire, forse, in linea di accompagnamento, ascolto, presenza, incontro, conversazione)… Infine, forse, una domanda: quale “Cristo” (come contenuto) ci consegna oggi lo stesso Cristo (come Dio vivente) perché sia mostrato a questo mondo in trasformazione?

Il nostro mondo in trasformazione sicuramente ci pone un’altra sfida teologica come accaduto a suo tempo a Sant’Agostino, e cioè se abbiamo bisogno di una nuova teologia della storia che ci aiuti ad ascoltare, interpretare e rispondere-servire questo mondo in trasformazione. Alla fine, la domanda centrale e operativa rimane sempre quale sia il concetto di missione da mettere al centro. Abbiamo, forse, altra competenza “utile” da offrire oggi, che non sia la nostra spiritualità con tutte le dinamiche che da essa sgorgano? Le nostre comunità e opere possono diventare anzitutto centri di vissuto spirituale, “zone verdi” (ecologia umana) in mezzo alla trasformazione secolare? Cioè luoghi di adorazione e contemplazione, di incontro e di conversazione, di cura dei percorsi personali di umanità e di spiritualità (in tensione verso un vissuto comunitario-ecclesiale), di Eucaristia come “pane della via” (cf. Cst. 12), di maturazione, forza e medicina per la vita (cf. EG 47)?

Una riflessione così aperta può essere chiusa soltanto con un paradosso: chissà quante altre cose verranno fuori da questo ribadire la chiamata ad essere uno in mezzo ad un mondo in trasformazione (e che ci trasforma, non sempre secondo le strade del vangelo!) perché oggi gli uomini possano credere in Dio Amore!

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