02 marzo 2022
02 mar 2022

Nel deserto parlerò al tuo cuore

Nel tempo quaresimale è utile ripercorrere, insieme ai protagonisti della narrazione biblica, le vie impervie e solitarie dei deserti della Terra del Santo per trarne alimento per la nostra vita spirituale.

di  Elena Bolognesi
Testimoni

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“Quaresima è tempo di prova – recita un inno monastico – cammino sull’arida terra”. L’arida terra del deserto è tradizionalmente il luogo geografico e spirituale più adatto per illustrare il percorso di ascesi che, anno dopo anno, la Chiesa propone alla nostra preghiera e alla nostra carità. Tanto tradizionale da correre il rischio di diventare scontato: un’icona, un contenitore che rischia di svuotarsi di significato. È utile allora ripercorrere, insieme ai protagonisti della narrazione biblica, le vie impervie e solitarie dei deserti della Terra del Santo per trarne alimento per la nostra vita spirituale.

Deserto e parola

In ebraico c’è una affascinante parentela semantica tra deserto (midbar) e parola (dabar) che mette in misteriosa relazione il luogo per eccellenza della solitudine, naturale rimando a separazione e silenzio, con un’espressione che allude a qualcosa che è molto più di un semplice parlare: dabar, infatti, è una parola concreta, “in azione”, che produce effetti, e che viene spesso tradotta con “cosa, fatto, comando”. È il dabar che esce dalla bocca di Dio e che, come la pioggia e la neve, scende dal cielo e non vi ritorna senza aver compiuto la sua missione di irrigare e far germogliare la terra (cfr. Is 55,10-11). È dunque il dabar di Dio l’unica fonte sorgiva capace di irrigare ogni nostro midbar, anche e soprattutto quello dell’anima, luogo privilegiato di ascolto e ospitalità del divino.

Ne sono testimonianza viva e dirompente i profeti: Osea, anzitutto, che narra di un Dio innamorato e geloso che seduce e attira la sposa infedele verso le asperità del deserto, non per punirla, ma per parlare al suo cuore, per farle conoscere un nuovo alfabeto dell’amore, l’unico capace di trasfigurare le infedeltà e trasformarle in un nuovo inizio, carico di promesse per il futuro. La Quaresima torna così a noi, ogni anno, per ricordarci che non c’è relazione con Dio, né relazione con gli altri, che non riparta continuamente dall’ascolto di questa parola sconvolgente, che viene a riprenderci sempre, negli angoli più remoti della nostra umiliazione, per rimetterci in cammino. Allora anche il nostro deserto tornerà ad essere terra feconda e pronta per germogliare.

Deserto e visione

Deserto di Bersabea. Una donna con un po’ di pane e un otre d’acqua si smarrisce nel deserto, insieme a suo figlio, che è solo un bambino. È Agar, la schiava egiziana, cacciata dalla tenda di Abramo dopo la nascita di Isacco, figlio di Sara, figlio della promessa di Dio. Cacciata per gelosia materna o forse perché i piani di Dio superano ogni logica umana. E infatti Dio non si dimentica della schiava e di suo figlio e ascolta e raccoglie quelle lacrime di donna (cfr. Gen 21,16), le prime della Bibbia, che sembravano perdersi nel deserto. Evaporare. Agar era già fuggita una volta (cfr. Gen 16), prima di partorire Ismaele, ed era stata ritrovata da un angelo del Signore, presso una sorgente d’acqua nel deserto. E proprio lì aveva dato un nome a Dio (atto di grande audacia per una donna straniera): lo aveva chiamato “il Dio della visione”, perché aveva scoperto di essere custodita proprio dallo sguardo di Dio, resa capace di vederlo dall’aver colto quello sguardo di compassione e cura: “Non ho forse visto colui che mi vede?” (Gen 16,13). È il dinamismo che fonda ogni atto di fede, è il paradigma dell’alleanza che prolunga in un’eco che percorre tutta la storia la prima domanda di Dio all’uomo: “dove sei?”. Interrogativo che smaschera, mette a nudo, che non lascia in ombra alcun recesso della coscienza. A noi la responsabilità (e la libertà) di cogliere in quella domanda il tono minaccioso del giudice o l’accorata apprensione di un padre innamorato. Lasciarsi vedere per imparare a vedere, lasciarsi trovare per stabilire una nuova alleanza. Un proposito per la vita, che il tempo quaresimale ci offre le condizioni per raccogliere e ripensare. Senza alibi né paure.

Deserto e prova

È uscendo dall’Egitto, sotto la guida di Mosè, che le tribù discendenti dai figli di Giacobbe assumono l’identità di un popolo, che il lungo cammino attraverso il deserto forgia anche (e forse soprattutto) nei momenti di prova. Prove che a volte hanno origine da minacce esterne (i popoli nemici che ostacolano l’ingresso del popolo di Dio nella terra della sua promessa), ma che più spesso scaturiscono all’interno della comunità, assumono la forma della lamentazione e ne minacciano le fondamenta, oltre a provocare la collera di Dio. Perché è il cuore stesso del credente di ogni tempo a doversi misurare con le prove della vita, che non vengono risparmiate nemmeno al popolo scelto tra tutti i popoli, destinatario di una predilezione gratuita ed eterna. La prova suscita resistenze e ribellioni che – lo sappiamo bene – sovente toccano ambiti sorprendentemente ordinari. Rileggendo il racconto dell’Esodo, non fatichiamo a ritrovarci nei dubbi e nei ripiegamenti di chi preferisce la sicurezza al rischio, di chi indulge alla nostalgia del passato per non affrontare le incertezze del futuro, di chi si abbandona alla mormorazione per coprire le proprie fragilità, di chi fa ricadere su altri le proprie colpe perché la grazia è sempre a caro prezzo. Ma ecco che, a ogni ribellione, Dio risponde con un segno: apre una via nel mare, rende dolci le acque di Mara, dona manna e quaglie dal cielo e acqua sorgiva dalla roccia e, infine, conduce fino alla terra della libertà. Perché la prova non è mai fine a se stessa e non è semplice punizione: è la sapiente pedagogia di un padre, che custodisce ogni suo figlio “come la pupilla del suo occhio” (Dt 32,10). Quaresima, dunque, può essere un vero tempo di prova solo a condizione che a ogni inciampo, a ogni caduta, corrisponda un segno, una manifestazione della cura di Dio, che è Padre e che vuole “l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6).

Deserto e noviziato

Forse si tratta di un accostamento ardito, eppure mi pare che il racconto biblico ci riporti spesso al luogo geografico e spirituale del deserto come a uno spazio e a un tempo necessari in ordine a un salto di qualità nell’itinerario di fede, a scelte significative, ad assunzioni di nuove responsabilità. Potrebbe forse essere paragonato a quel “tempo di fidanzamento” nel quale – secondo la profezia di Geremia – il popolo seguiva Dio, con l’affetto della giovinezza, nel “deserto, in terra non seminata” (cfr. Ger 2,2). Un tempo di entusiasmo e forse anche di ingenuità, ma di certo un tempo di apertura al nuovo, di coraggio e di intraprendenza. Storicamente si fa riferimento al tempo dell’esodo dall’Egitto, ma non fatichiamo a ritrovare questo dinamismo in molte storie narrate dalla Bibbia, storie di partenze e di rottura con il passato per abbracciare nuovi cammini. Ripensiamo ad Abramo che “partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8), a Mosè, che incontrò il Dio dei suoi padri in terra d’esilio, oltre il deserto (cfr. Es 3,1ss), e lì ricevette la sua missione. Ancora, pensiamo a Elia che dovette attraversare il deserto per raggiungere il monte della manifestazione di Dio nel momento più drammatico della sua vita (cfr. 1Re 19). E poi Davide e i profeti… fino ad arrivare a Giovanni Battista e, soprattutto, a Gesù. Possiamo in qualche modo definire i quaranta giorni di Gesù nel deserto come il tempo del suo noviziato, in vista del ministero pubblico? Di certo è il luogo del nudo e radicale attaccamento alla Parola, ma il deserto è per Gesù il luogo dell’intimità del Padre, nel continuo ritornare ad attingere forza dal principio e fondamento della volontà di Dio. E, in ultimo, cosa dire del tempo avvolto nel mistero che san Paolo trascorre in Arabia (probabilmente una regione desertica a sud di Damasco), dopo aver incontrato il Risorto sulla via di Damasco e prima di raggiungere gli altri apostoli a Gerusalemme? Non possiamo lasciarci andare a ipotesi azzardate, ma non ci sentiamo di escludere che il periodo in Arabia e quello successivo a Tarso (prima che Barnaba lo andasse a “riprendere”) abbiano avuto il valore e l’importanza di momenti preparatori. Il deserto quaresimale ci richiama allora alla nostra personale esperienza di noviziato: non solo e non semplicemente quella canonica, svoltasi in un determinato tempo e in un determinato luogo, ma soprattutto quella umana e spirituale che si rinnova di continuo e fa tornare anche noi, senza stancarci, al principio e fondamento della nostra vocazione. Per ricominciare, per rimetterci in cammino, come fosse la prima volta.

Deserto e fraternità

Quando si parla di “quaresima di fraternità”, immediatamente e forse inevitabilmente pensiamo a tutte quelle forme di solidarietà che ricevono un particolare impulso durante il tempo della sobrietà e del digiuno. Ma se ci fermiamo per un istante a considerare il presente della Chiesa e della società che abitiamo, e se proviamo a raccogliere i numerosi inviti a vivere una “fraternità mistica, contemplativa” che caratterizzano il magistero di papa Francesco, possiamo forse cogliere nello spazio-tempo sacro del deserto quaresimale una preziosa occasione per ridare respiro e futuro a ogni ambito di fraternità che intercetta il nostro itinerario di fede e di sequela di Gesù. È già accaduto al tempo dell’esilio a Babilonia: il popolo scampato alla spada ha trovato grazia nel deserto (cfr. Ger 2,2). E anche noi, che a volte ci sentiamo in esilio, lontani da casa, che avvertiamo le nostre fraternità perdere splendore e vivacità, possiamo ritrovare in questo tempo, percorrendo i nostri quaranta giorni di deserto, l’amore eterno di Dio che non smette di edificare le nostre vite (cfr. Ger 31, 3-4).

Nel deserto mediorientale i primi arbusti a fiorire sono i mandorli selvatici, che a febbraio colorano gli anfratti rocciosi e annunciano la primavera… “Vedo un ramo di mandorlo” disse Geremia e il Signore rispose: “Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla” (cfr. Ger 2,11-12).

Testimoni è una rivista mensile, del Centro Editoriale Dehoniano, con sede in Italia, a Bologna. La sua tiratura attuale è di circa 4.000 copie. Essa è anche online.

È una rivista di informazione, spiritualità e vita consacrata. Da oltre 35 anni si pone al servizio della vita consacrata con speciale attenzione all’attualità, alla formazione spirituale e psicologica, alla informazione sugli avvenimenti più rilevanti della Chiesa e degli istituti religiosi maschili e femminili.

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