19 ottobre 2020
19 ott 2020

P. Charles Aimé Koudjou, nominato consigliere generale a Roma

P. Charles Aimé Koudjou, nominato consigliere generale a Roma
Dopo un lungo periodo di consultazione e discernimento, il Superiore Generale, p. Carlos Luis Suarez Codorniu, il 14 ottobre scorso, ha nominato il p. Charles Aimé Koudjou consigliere Generale della Congregazione. In un'intervista, condivide con noi i suoi primi sentimenti.
di  Boris Signe
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Caro Padre, abbiamo accolto con grande gioia la tua nomina come consigliere generale della Congregazione. Come hai accolto questa nomina?

Ho salutato il mio appuntamento con sorpresa e stupore. Sorpresa perché non mi immaginavo una cosa del genere e stupore che si riferisse a me come persona. Per molto tempo sono rimasto “senza parole”. Non potendo esprimere esattamente la sensazione che provavo in quel momento, mi sono trovato gradualmente invaso da una sorta di paura, di timore. Ancora oggi devo ammettere che è una cosa che mi spaventa, anche se il Padre Generale mi ha rassicurato che non è un lavoro che mi è stato affidato, ma una chiamata a partecipare al lavoro di un’équipe, a condividere con gli altri, in umiltà e disponibilità, ad essere vicino agli altri,  ad essere lì per loro come loro sono lì per me, per noi.

Un duro colpo o una grande gioia per lo scolasticato di Bamenda, dove sei stato rettore per 5 anni?

È una domanda difficile e su cui il mio punto di vista non può dire tutta la verità. Dal mio punto di vista, è un duro colpo. Perché siamo a metà dell’anno accademico. L’ultimo confratello è tornato dalle vacanze appena due giorni fa e avevamo già iniziato a rivedere il nostro progetto comunitario per questo nuovo anno accademico, a fissare alcuni obiettivi e a individuare alcune sfide. Non ho dubbi che saranno perseguiti e certamente anche meglio raggiunti, ma questa certezza non toglie nulla alla mia preoccupazione. Quando uno ha amato la propria comunità, non importa quanto tempo vi abbia trascorso (6 mesi, 1 anno, 5 anni, 10 anni) vuole sempre il meglio per essa, da qui l'”inquietudine”, il rifiuto della quiete fino alla sua completa realizzazione.

Come Consigliere generale sei chiamato a lasciare questa casa di formazione a Bamenda per entrare nella Curia generale a Roma. Sai cosa ti aspetta ? Hai già qualche idea che porterai con te a Roma?

Devo dire che non so cosa mi aspetta. Ma se c’è una cosa che so per certo, è che sicuramente imparerò molto. Imparerò dagli altri e con gli altri. Qualche idea da portare a Roma? No, niente affatto. Vado come un foglio bianco e alla fine del mio soggiorno vedremo se c’è qualcosa di scritto.

Hai anche una grande esperienza internazionale e nella formazione: che cosa hai imparato?

Grazie, è molto lusinghiero, ma non esageriamo. Durante i miei anni di studio ho avuto la possibilità di visitare alcune delle Entità della Congregazione, e porto ancora nel cuore ricordi indimenticabili: l’accoglienza dei confratelli, la loro disponibilità, la loro generosità, il loro impegno nelle loro diverse missioni. (Ma siamo ancora molto lontani dal parlare di una grande esperienza). Ovunque andassi, anche per una breve visita, i confratelli mi edificavano molto, soprattutto per la loro diversità.  Parlando di formazione, credo di aver imparato qualcosa di essenziale per me: formare i giovani è lasciarsi formare dai giovani. Forse per non scandalizzare alcune persone sensibili, è meglio che io dica che la formazione è “autoformazione”, meglio ancora “formazione reciproca”.

Ricordo ancora i miei primi anni, quando tornando fresco di preparazione, pieno di conoscenze e teorie ben assimilate, ho pensato che bastasse applicarle. No, non l’ho fatto. Grazie a Dio, ho capito subito che tutto ciò che gli anni di preparazione mi hanno dato erano solo strumenti per me stesso, per aiutarmi a scendere al livello del giovane, per sedermi accanto a lui, molto vicino a lui, affinché potesse parlarmi di ciò che è e di ciò che vuole, di ciò che sente e soprattutto di come intende organizzare tutte le bollicine che lo afferrano. Ammirare con lui ciò che è, e ciò che fa con ciò che è, suggerendo percorsi che si adattano all’obiettivo che si è prefissato, ma anche approfittarne per correggere talvolta i propri percorsi, che è per me ciò che è la formazione o ciò che ho imparato in questi anni di formazione.

Nella sua ultima lettera, il superiore generale stabilisce un grande legame tra la recente enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” e la vita dehoniana. Quali sono secondo te le principali sfide di “Fratelli tutti” per la vita nelle nostre diverse comunità?

Sono solo a metà della lettura di questa nuova enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti. Spero di trovare un po’ di pace e tranquillità nei prossimi giorni per completare la sua lettura. Da quanto ho già affermato, il Santo Padre, vuole risvegliarci alla “fraternità universale”, quella fraternità che va oltre i limiti geografici, temporali e spaziali. È una fraternità senza limiti, che ci riporta all’essenza della nostra fede: l’amore incondizionato per il prossimo, per coloro che mi sono vicini, non solo una vicinanza nello spazio e nel tempo, non solo una vicinanza linguistica, religiosa, culturale, etnica, tribale, clericale… ma soprattutto, quella che mi è vicina in umanità, attraverso la nostra comune umanità. L’esempio di San Francesco in visita al Sultano d’Egitto è stupefacente. I sacrifici, i dolori del viaggio e molto altro ancora nel contesto delle Crociate. Quando si sa che le Crociate avevano tra le loro missioni, e non certo la meno importante, quella di liberare il cristianesimo, e più concretamente, la “Terra Santa” dall’invasione musulmana, ciò fa riflettere. San Francesco sembra dirci che anche il presunto “nemico” è un fratello, un fratello nell’umanità. E  il suo viaggio, il suo lungo pellegrinaggio in Egitto, mentre traduce il suo amore per questo fratello, ha tutte le carte in regola per un processo di riparazione. San Francesco ama e ripara universalmente. Egli è senza dubbio, “profeta dell’amore e servitore della riconciliazione”. Se mi fosse concesso un anacronismo, direi che è un dehoniano, un discepolo di padre Dehon. Questo dice tutto sul legame tra questa nuova enciclica e la nostra vita dehoniana.

Nella sua ultima lettera il Padre Generale ne ha evidenziato la posta in gioco: Mettere la fraternità e l’amicizia sociale al centro della nostra vita, vivere un amore universale nel senso che abbiamo appena descritto, senza limiti, un amore che “trascende le distanze per origine, nazionalità, colore, o religione” e ce lo fa arrivare più lontano, un amore che va oltre i nostri confini tribali, etnici, clanici, linguistici… Senza perdere di vista il fatto che c’è in ognuno di noi “qualcosa di un uomo ferito, qualcosa di un brigante, qualcosa di chi passa, qualcosa del Buon Samaritano”. Una delle maggiori sfide per noi dehoniani è il riconoscimento della nostra vulnerabilità, della nostra fragilità, della mia e di quella dell’altro che attende il mio aiuto, la mia cura. Insomma, il Papa ci invita a prenderci cura l’uno dell’altro.

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