08 settembre 2020
08 set 2020

“Essere vicini ai poveri aiuta a leggere il quotidiano”

“Essere vicini ai poveri aiuta a leggere il quotidiano”
Nel mese di agosto p. Pedro Jesús Arenas è rientrato in Spagna, lasciando il paese dove è stato in missione per molti anni, l'Ecuador. Lì ha vissuto momenti molto difficili, ma anche situazioni molto emotive che gli hanno lasciato il calore e la gratitudine degli ecuadoriani.
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Dopo 17 anni in Ecuador, ora di nuovo in Spagna. Che cosa ha significato l’Ecuador nella tua vita?

Sono da poco arrivato in Spagna, quindi non ho una adeguata prospettiva per poter collocare questi diciassette anni e mezzo nella mia vita. Al momento sento che l’esperienza della missione in Ecuador è stata molto importante per me. Sono approdato quando avevo ventinove anni come diacono e mi ero appena diplomato alla scuola per infermieri. In Ecuador ho sviluppato tutto il mio ministero sacerdotale. Ho vissuto li da circa trenta anni fino ai quarantasette anni, che è di solito la fase più produttiva e in più rapida crescita della vita.

Cosa ti mancherà di più di questo paese latinoamericano?

Non posso dirlo con certezza a questo punto, ma sono sicuro che mi mancherà in questi due aspetti:

  • Un ambiente religioso in cui Dio è presente nella vita quotidiana: “Datemi la vostra benedizione”; “Che Dio vi ricompensi”; “Grazie a Dio”… Questa normalità del sacro, del trascendente, arricchisce la vita quotidiana e dà senso a tutto ciò che si vive, così necessario in momenti come questo di pandemia.
  • Il calore nelle relazioni quotidiane, la vicinanza che si respira a casa e in strada.

Immagino che tu abbia visto delle situazioni molto tristi: te ne ricordi qualcuna che ti ha particolarmente colpito?

Sono passati molti anni e ho vissuto molte situazioni. Ho avuto il privilegio di assistere le persone che vivono con l’HIV-AIDS negli anni 2004-05, con tutto quello che questo comportava di esclusione sociale e di pericolo di vita. Sono stato vicino a loro, per aiutarli a trarre il meglio da se stessi, affinché potessero affrontare con coraggio e dignità la loro personale situazione, anche nel dire apertamente: “Sì, ho la malattia e voglio vivere”. Posso dire lo stesso delle persone alcolizzate, tossicodipendenti o che hanno vissuto situazioni complicate nella loro vita. Forse la cosa più difficile è stata stare accanto a chi non vuole più vivere e che non vuole più lottare o confrontarsi.

Negli ultimi anni sei stato responsabile della Casa della Formazione di Quito. Cosa significa questo centro per le persone che sentono di essere chiamati ad una vocazione?

Chi entra in un percorso di formazione alla vita religiosa assume un cammino molto bello di discernimento vocazionale e di crescita umana e spirituale. Presupponendo questo, una casa di formazione è sempre un’esperienza positiva per un giovane, qualunque sia il suo futuro vocazionale.

Vuoi andare in missione da qualche parte più avanti?

Ora come allora, quello che desidero maggiormente è avere il coraggio di discernere la volontà di Dio e di essere fedele a me stesso, dovunque sia.

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