10 dicembre 2021
10 dic 2021

La gioia: un dono da accogliere

di  Fernando Armellini, scj

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“Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? La scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco” (Lc 3,7.9). È con queste parole severe che Giovanni accoglie quanti vanno da lui a farsi battezzare. Avrà anche ragione, ma di certo le sue minacce non sembrano una “buona notizia” e neppure sono in armonia con il tema della gioia che caratterizza le letture di questa domenica.

“Fate opere degne della conversione!” – ripete alle folle (Lc 3,8). Va bene, ma quali sono queste opere? La gente semplice, alla quale si rivolge, si aspetta proposte chiare, non discorsi astratti e generici.

Nella prima parte del Vangelo di oggi (vv.10-14) compaiono tre gruppi di persone – il popolo, i pubblicani, i soldati – che vanno dal Battista per avere indicazioni concrete. Si tratta di uno schema ternario di domande e risposte che serve per presentare situazioni esemplari (Cfr. Lc 9,57-62). E’ un artificio letterario che invita ad applicare il principio ascetico indicato dal Battista ad altri casi simili.

La domanda: “Cosa dobbiamo fare?” è ripresa più volte nell’opera di Luca (At 2,37; 16,30; 22,10). Indica la completa disponibilità ad accogliere la volontà di Dio da parte di chi si rende conto di essere andato fuori strada, è deciso a cambiare vita e chiede un’indicazione sul cammino da intraprendere.

Immaginiamo che qualcuno di noi, desideroso di prepararsi bene al Natale, rivolga questa medesima domanda a coloro che consideriamo “esperti” in campo religioso (il catechista, l’operatore pastorale, la suora, il prete). Cosa ci risponderebbero?

Qualcuno suggerirebbe di aiutare un fratello che è in difficoltà o di visitare un ammalato, ma avremmo anche altre risposte: “Recita ogni giorno il rosario”; “Di’ tre Salve‑regina prima di addormentarti”; “Vatti a confessare”… Si tratta di consigli buoni – intendiamoci – tuttavia il Battista non sceglie questo cammino. Non suggerisce nulla di specificamente “religioso”, non raccomanda pratiche devozionali, cerimonie penitenziali (imposizione di ceneri, digiuni, preghiere, ritiri spirituali nel deserto). Esige qualcosa di molto concreto: una revisione radicale della propria vita a partire dal principio etico dell’amore al fratello.

Al popolo dice: “Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto” (vv.10-11).

Domenica scorsa il Battista ha invitato a rivedere il rapporto con Dio se si vuole preparare la venuta del Messia. Ha chiesto un cambiamento nel modo di pensare e di agire per avere il perdono dei peccati (Lc 1,3). Oggi mette a fuoco il nuovo rapporto che si deve instaurare con il prossimo. Amore, solidarietà, condivisione, rimozione delle disuguaglianze e degli abusi di potere sono le parole chiave del suo discorso.

Non si può certo accusare il Battista di mancanza di chiarezza. Le preghiere e le devozioni vanno bene, purché non si trasformino in alibi, purché non siano impiegate come espedienti per sfuggire alla richiesta di condivisione dei beni con i più bisognosi.

Ci raduniamo volentieri per pregare, per cantare, ma quando ci viene chiesto di mettere a disposizione dei fratelli i beni che possediamo… tutti i nostri entusiasmi religiosi svaniscono, di colpo. Eppure il Battista è ancora “comprensivo” nei confronti della debolezza umana. Dice: “Se hai due tuniche danne una a chi non ne ha”. Dai suoi discepoli Gesù esigerà ancora di più: “A chi ti porta via il mantello, dagli anche la tunica!” (Lc 6,29).

In seguito si presentano da Giovanni i pubblicani.

Sono coloro che esercitano la professione più odiata dal popolo: riscuotono le tasse e sono dei collaborazionisti con il sistema oppressivo dei romani. Arricchiscono estorcendo denaro dai più deboli e indifesi. A costoro il Battista non chiede di cambiare professione, ma di non approfittarsi del loro mestiere per sfruttare i più poveri.

Forse pensiamo di non avere nulla a che vedere con questa professione. Invece – dobbiamo ammetterlo – ci comportiamo da “pubblicani” quando, ad esempio, raggiunta una posizione di prestigio, esigiamo parcelle elevatissime per le nostre prestazioni, adducendo magari come giustificazione: “Sono queste le tariffe stabilite”.

Il pubblicano è il simbolo di colui che maneggia il denaro in modo “disinvolto”. Pubblicano è chi compra e vende senza scrupoli pensando solo al proprio tornaconto; è chi, con abili raggiri, riesce ad imbrogliare le persone semplici, chi evade le tasse, chi ordisce truffe ai danni dello Stato, chi approfitta dell’ingenuità del povero per sfruttarlo ed arricchirsi.

Chi si comporta da “pubblicano” non può certo prepararsi al Natale solo con qualche preghiera.

Gli ultimi a chiedere consigli al Battista sono i soldati. Ci aspetteremmo che Giovanni consigliasse loro di spogliarsi della divisa, di gettare immediatamente le armi e di rifiutarsi di combattere. Ma anche qui egli si mostra “tollerante”. Gesù sarà più radicale e proibirà qualunque ricorso alla violenza. Dirà al discepolo: “Non opporti al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5,39).

I soldati di quel tempo erano mal pagati ed allora che facevano? Avendo le armi in mano, approfittavano della loro forza per malmenare la gente, molestare le donne, estorcere denaro ed imporre servizi duri e umilianti ai più deboli, angariare i poveri contadini e costringerli a portare carichi. A costoro il Battista chiede che non maltrattino nessuno e che si accontentino delle loro paghe.

I soldati sono il simbolo di coloro che possono abusare della loro forza. Chi s’approfitta del posto che occupa, della professione che svolge per dominare e sopraffare i più deboli si comporta da “soldato” (di quel tempo, naturalmente) ed è invitato a rivedere il suo comportamento se vuole prepararsi alla venuta del Signore.

Nella seconda parte del Vangelo (vv.15-18) il Battista riprende il suo linguaggio apparentemente duro, rigoroso, quasi intollerante. Parla di separazione del buon grano dalla pula e minaccia la distruzione di questa nel fuoco inestinguibile. Sembra che ai peccatori non lasci alcun margine per esultare: li attende – assicura – ed è imminente, un terribile giudizio di Dio.

Eppure il severo discorso di Giovanni è concluso dall’evangelista con una frase sorprendente: “Con queste e molte altre parole di consolazione egli annunziava al popolo la buona novella” (v.18).

Avete capito bene: parole di consolazione (è questa la traduzione corretta del verbo parakaleo). Per Luca il messaggio del Battista è buona novella, è una notizia lieta, è la promessa di un evento felice.

Il modo di esprimersi di Giovanni forse non è conforme alla nostra sensibilità attuale, non è né dolce né tenero, eppure ciò che vuole comunicare è gioia e speranza. Se consideriamo con attenzione il testo, verifichiamo che egli non promette alcun castigo di Dio, parla solo della venuta dello Spirito Santo e del fuoco che annienterà la pula.

L’acqua pulisce, ma può anche uccidere, può sommergere e far affogare. Quando immergeva nel fiume Giordano coloro che venivano a farsi battezzare da lui, Giovanni compiva un gesto che significava purificazione dalle macchie di peccato e morte alla vita passata. Nulla più. Il suo era un battesimo imperfetto, incompleto – e di questo il precursore era perfettamente cosciente. Sapeva che l’acqua che egli impiegava era un bagno esteriore.

Per divenire linfa vitale l’acqua deve essere assorbita dalle piante, deve essere bevuta e assimilata dagli animali e dagli uomini.

Il battesimo di Gesù non è un’acqua che pulisce di fuori, è acqua che penetra dentro, ravviva e trasforma. E’ acqua che diviene in chi la beve “sorgente che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). E’ il suo Spirito, è la forza di Dio che trasforma l’uomo vecchio in creatura nuova. E’ il compimento della profezia di Ezechiele: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36,25-27).

A questo punto diviene chiara anche l’immagine del fuoco. Ne parlerà in seguito Gesù stesso: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già acceso!” (Lc 12,49). Non è il fuoco preparato per punire i peccatori impenitenti. L’unico fuoco che Dio conosce è quello portato sulla terra da Gesù, è lo Spirito che rinnova la faccia della terra (Sal 104,1). Scenderà dal cielo nella Pentecoste (At 2,3) e unirà gli uomini in un’unica lingua, quella dell’amore.

Sarà questo il fuoco che purificherà il mondo da tutto il male, che annienterà ogni “pula”.

Non sono i peccatori dunque che devono temere la venuta di Cristo, ma il peccato del quale è annunciata la distruzione. I peccatori devono solo rallegrarsi perché per loro è giunta la liberazione dal male che li tiene schiavi.

Ci sono molte allegrie che non sono cristiane. Il Battista indica il cammino per lasciarsi riempire il cuore della vera gioia: preparare la venuta del Signore nella propria vita mediante la condivisione dei beni con i poveri e mediante il rifiuto di ogni forma di abuso, di sopraffazione, di prevaricazione nei confronti del fratello.

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