23 dicembre 2021
23 dic 2021

Luce per chi giace nelle tenebre

di  Fernando Armellini, scj

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E’ quasi inevitabile che ascoltiamo il brano evangelico che ci viene proposto in questa notte condizionati dall’atmosfera natalizia che ci circonda: alberelli illuminati, suoni di zampogne, neve, pastorelli. Ci lasceremo probabilmente anche prendere dall’emozione. Non è un male, tuttavia questo brano non è stato scritto per commuovere e nemmeno per dare informazioni sulla nascita di Gesù. Se così fosse saremmo in diritto di lamentarci con Luca per essere stato troppo sobrio nei dettagli.

E’ stato composto, probabilmente, dopo che il resto del Vangelo era già stato scritto ed è una pagina di teologia che, come uno stupendo preludio al resto dell’opera, vuole presentare ciò che i cristiani delle prime generazioni, guidati dallo Spirito, sono arrivati a capire del Signore Gesù, morto e risorto.

Il brano inizia con un’ambientazione storica e geografica ben precisa.

E’ il tempo in cui a Roma regna Cesare Augusto, il principe celebrato in tutto l’impero per la sua “audacia, mitezza, pietà e giustizia”. E’ lui che, dopo gli interminabili orrori delle guerre civili, ha finalmente ristabilito ovunque la pace. E’ l’epoca d’oro della storia di Roma cantata da Virgilio. In una famosa iscrizione collocata nell’anno 9 d.C. a Priene, in Asia Minore, si dispone che l’anno abbia inizio il 23 settembre, giorno della nascita di Augusto perché “ciascuno può considerare questo avvenimento come l’origine della sua vita e della sua esistenza, come il tempo a partire dal quale non si deve più piangere per la propria nascita. Donandoci Augusto, la Provvidenza divina ha inviato a noi e a quelli che verranno dopo di noi come salvatore colui che doveva porre fine alle guerre e riordinare tutto. Il giorno della nascita del dio (Augusto) è stato per il mondo l’inizio dei lieti annunci (lett. “vangeli”) ricevuti grazie a lui”.

E’ il tempo del censimento di tutta la terra, censimento che, dal punto di vista storico, presenta non poche difficoltà, ma che, nell’intenzione di Luca, assume un indubbio significato teologico. Gli serve per dichiarare solennemente che il Figlio di Dio si è inserito nella storia universale, che è divenuto cittadino del mondo.

Poi viene indicato il luogo in cui Gesù è nato: Betlemme, una città (in realtà un villaggio di pastori) dei monti della Giudea. Luca sottolinea che “Giuseppe era della casa e della famiglia di Davide” e che “salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme” (v.4). Il riferimento a questo luogo è importante perché è da Betlemme che il popolo si attende il Messia (Gv 7,40-43). Il profeta Michea infatti aveva annunciato: “E tu, Betlemme di Efrata, da te uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele” (Mic 5,1).

Con queste annotazioni storiche e geografiche Luca vuole affermare anche che la nascita del Salvatore non è un mito da relegare nel mondo delle favole – come ne circolavano tante al suo tempo – ma è un avvenimento reale e concreto.

“Mentre si trovavano in quel luogo” Maria diede alla luce il suo figlio “primogenito”. Maria si comporta come tutte le mamme e Luca menziona i suoi gesti premurosi e attenti: fascia il bambino e lo depone nella mangiatoia. Non avviene alcun miracolo. La nascita di Gesù è identica a quella di qualunque altro uomo. Fin dal suo primo apparire in questo mondo condivide in tutto la nostra condizione umana.

“Non c’era posto per loro nell’alloggio”.

Se si tiene presente quanto sia sacra in Oriente l’ospitalità, è del tutto inverosimile che Maria e Giuseppe siano costretti a trovare riparo in una grotta perché rifiutati da tutte le famiglie del luogo.

Il termine usato nel testo originale non si riferisce all’albergo o al caravanserraglio, ma ad una camera (probabilmente l’unica) della casa in cui Giuseppe e Maria sono stati accolti. Non era conveniente che il parto avvenisse in una stanza che non offriva un minimo di riservatezza (E’ questo il senso dell’espressione: “non c’era posto per loro”). Come doveva accadere alle partorienti povere di tutta la Palestina, anche Maria fu introdotta nell’angolo più interno e recondito dell’abitazione, quello in cui solitamente trovavano posto anche gli animali.

Anche se il testo evangelico non parla del bue e dell’asino (che sono stati suggeriti alla pietà popolare da un testo di Isaia: “Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del suo padrone” – Is 1,3), non è improbabile che vi fossero.

Luca sottolinea questi dettagli per mostrare che Dio – com’è solito fare – sovverte i valori e i criteri di questo mondo. Il Dio che gli uomini, anche oggi, si aspettano è forte e terribile, capace di seminare il panico e di farsi rispettare. Ma questo non è Dio, è un idolo, è la proiezione dei nostri sogni meschini di grandezza e potere. Il Dio che si manifesta in Gesù è esattamente l’opposto: debole, indifeso e tremante, si affida alle mani di una donna. Questo non è un momento di passaggio della sua rivelazione, una parentesi infelice in attesa di riprendere poi tutto il suo abbagliante splendore e tutta la sua forza. In Gesù adagiato nella mangiatoia è invece presente in pienezza il vero, eterno Dio, “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,23).

Nella seconda parte del vangelo (vv. 8-14) la scena cambia completamente. Non siamo più nell’intimità di una casa, ma all’aperto, nei campi e i personaggi sono altri: i pastori e gli angeli.

“C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge”. Se questa vuole essere anche un’informazione, allora Gesù non è nato in inverno perché il gregge era custodito all’aperto da marzo a fine ottobre. Ma a noi non interessa molto sapere in quale mese Gesù è nato. Più importante è identificare chi sono coloro che per primi riconoscono nel bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia il Salvatore, il Messia, l’atteso figlio di Davide. Sono i pastori.

Come mai proprio loro? Non perché spiritualmente meglio disposti. Tutt’altro. I pastori non erano affatto gente semplice, buona, innocente, onesta, stimata da tutti. Erano catalogati fra i più impuri degli uomini e c’erano buone ragioni per ritenerli tali. Conducevano una vita non molto diversa da quella delle bestie, non potevano entrare nel tempio per pregare, non erano ammessi a testimoniare in un tribunale perché inattendibili, falsi, disonesti, ladri, violenti. I rabbini dicevano che i pastori, i pubblicani e coloro che riscuotevano le tasse ben difficilmente si potevano salvare perché avevano fatto tanto male, avevano tanto rubato che nemmeno loro erano in grado di ricordare chi avevano danneggiato. Quindi, non potendo restituire, erano destinati alla perdizione.

E’ a costoro che è inviato il messaggero celeste. “Ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, per voi, è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore” (vv.10-11).

Si sente nelle parole dell’angelo l’eco dell’iscrizione di Priene. Non era Augusto – sembra insinuare Luca – il salvatore che doveva inondare il mondo di gioia e instaurare la pace. Non è stata la sua nascita, ma quella di Gesù che ha segnato “l’inizio delle buone novelle ricevute grazie a lui”.

Fin dal suo primo apparire nel mondo Gesù si è collocato fra gli ultimi. Sono loro, non i “giusti”, che si attendono da Dio una parola di amore, di liberazione e di speranza.

Cresciuto, Gesù continuerà a vivere accanto a queste persone: parlerà il loro linguaggio semplice, userà i paragoni, le parabole, le immagini prese dal loro mondo, parteciperà alle loro gioie e alle loro sofferenze, starà sempre dalla loro parte contro chiunque tenti di emarginarli.

Il segno dato ai pastori per riconoscere il Salvatore è sorprendente, paradossale. Non viene detto loro che troveranno un bambino avvolto di luce, col viso d’angelo, con un’aureola sul capo, circondato da schiere celesti. Nulla di tutto questo; il segno è… un bambino del tutto normale, con una sola caratteristica: è povero e tra i poveri.

I due gruppi che troveremo durante la vita di Gesù sono dunque già ben definiti al momento della sua nascita: da un lato i poveri, gli ignoranti, la gente disprezzata che lo riconosce immediatamente e lo accoglie con gioia. Dall’altro i saggi, i ricchi, i potenti, coloro che vivono isolati nei loro palazzi, lontani dal popolo e dai suoi problemi, convinti di possedere già tutto ciò che rende felici. Costoro non hanno bisogno di nessun salvatore, anzi, un Messia che non corrisponda alle loro attese, che disturbi i loro progetti è un personaggio scomodo, da eliminare al più presto.

Le donne che a Betlemme hanno assistito Maria durante il parto, osservando quel bambino non si sono certamente rese conto che la storia del mondo sarebbe stata divisa in due parti: prima e dopo quella nascita.

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