05 luglio 2021
05 lug 2021

Sacro Cuore e Costituzioni dehoniane

Sacro Cuore e Costituzioni dehoniane
Le costituzioni dehoniane non fanno accenno esplicito alla devozione al Sacro Cuore di Gesù. Ciò è frutto della rilettura biblica dell’esperienza di fede di p. Dehon e di una rilettura critica del contesto storico che l’ha generato. Oggi è necessario innestare la devozione su concreti segni, comprensibili agli uomini e donne del nostro tempo.
di  Marcello Neri
Settimananews
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Potrebbe sorprendere il fatto di non trovare nelle Costituzioni dehoniane alcun riferimento esplicito alla devozione al Sacro Cuore di Gesù.

Niente del lessico e delle atmosfere immaginarie di questa devozione che ha vissuto il suo apogeo, ecclesiale e socio-politico, nel XIX secolo – proprio quando p. Dehon andava maturando l’ispirazione di fondare una congregazione la cui ragion d’essere si trovava esattamente nella singolare specificità della fede che la devozione al Sacro Cuore andava generando nella sua esperienza spirituale.

 Devozione e iconoclasmo

A una prima lettura, quindi, le Costituzioni dehoniane sembrano essersi caricate del compito di una sorta di iconoclasmo devozionale: dove al romanticismo, talvolta un po’ melenso, del vocabolario spirituale di p. Dehon subentra la sobrietà del linguaggio biblico.

In questa prospettiva, le Costituzioni si presentano esattamente come il tentativo di trasporre l’universo devozionale a cui Dehon ancora la fondazione della Congregazione all’interno delle pagine bibliche che sono in grado di legittimare la specificità di un’esperienza di fede all’interno della Chiesa attuale (per le Costituzioni dehoniane quella che esce dal Concilio Vaticano II). E aprire così un orizzonte che ne renda possibile la declinazione non tanto davanti, quanto piuttosto a favore del vissuto degli uomini e delle donne del nostro tempo (categoria, questa, che rappresenta uno degli architravi intorno a cui si dipana l’architettura spirituale della Costituzioni dehoniane).

Guardando oggi al lungo processo che, partendo dalla riconfigurazione complessiva della Chiesa cattolica a cui aspirava il Vaticano II in ragione della storicità non solo della rivelazione di Dio ma anche della missione che compete alla comunità cristiana, arriva fino all’approvazione definitiva delle Costituzioni dei Sacerdoti del Sacro Cuore nel 1986, si riescono a comprendere sia le (buone) ragioni che indussero a una certa epurazione del lessico e dell’immaginario devozionale, sia il prezzo che questo ha chiesto di pagare rispetto alla capacità di recuperare, sulla linea normativa istruita dalle Costituzioni, il tema della devozione (al Sacro Cuore) come referente comunque imprescindibile per la declinazione specificamente dehoniana della fede cristiana.

Il recupero della scena della Scrittura, fatta giocare come contemporaneità della scena originaria del cristianesimo con ogni vissuto effettivo della fede e come principio regolatore della tradizione, dogma, magistero, si impose anche alla coscienza dehoniana che si apprestava a riscrivere le Costituzioni. È probabile che per molti confratelli di allora questa entrata in scena del testo biblico venne accolta anche come una liberazione da lungo attesa.

Appunto, liberazione da tutto un apparato devozionale sentito essere più una sovrastruttura, un velo che si frapponeva, piuttosto che come il modo proprio di accesso della declinazione dehoniana della fede all’attestazione normante della pagina biblica.

L’urgenza di affermare la pertinenza biblica dell’esperienza spirituale propria al vissuto dehoniano finì col richiedere il sacrificio del devozionale – puntualmente espunto dal testo delle Costituzioni. È probabile che questo momento di catarsi fosse necessario, ossia che non fosse possibile allora declinare contemporaneamente la pagina biblica della rivelazione di Dio e la pagina della devozione al Sacro Cuore.

A una certa distanza storica, che significa anche un cambio di generazioni, ci si può chiedere se il devozionale come sovrastruttura, come pellicola indebita rispetto alla storia di Dio con gli uomini, sia da ascrivere direttamente a p. Dehon o se, piuttosto, non fu l’esito di un modo contingente, altrettanto storico, di usare il lessico di fondazione nei decenni seguenti alla morte del fondatore.

L’impegno di Dehon, certo maldestro se valutato con i parametri e le competenze bibliche odierne, di tessere una trama connettiva fra la scena biblica e l’immaginario devozionale del Sacro Cuore mi sembra essere uno dei guadagni più significativi della relativamente recente ripresa in carico dei suoi scritti spirituali all’interno della Congregazione.

Credo che sia oggi possibile dire che nell’esperienza spirituale di p. Dehon la devozione al Sacro Cuore non rappresenta una sovrastruttura che impedisce alla scena della Scrittura di circolare nelle trame profonde di quell’esperienza. Questo, certo, non chiarisce ancora la qualità del rapporto fra devozione e Scrittura nell’esperienza fondativa di Dehon; né dice cosa di questa esperienza chiede di essere consegnato alle generazioni future del vissuto fraterno della Congregazione.

 Il possibile della devozione

Dice però quantomeno che il devozionale, la referenza all’immaginario del Sacro Cuore, non può essere semplicemente lasciato da parte nel vissuto credente dehoniano – stante la sua assenza dal testo delle Costituzioni.

Mi sembra che nello spazio di questa assenza, ossia delle ragioni che hanno spinto verso un’elisione della devozione al Sacro Cuore come referente lessicale e immaginario del vissuto dehoniano post-conciliare, si possano trovare indici significativi che spingono nella direzione di una sua ripresa nella luce del lavoro compiuto dalle Costituzioni, da un lato, e di quella di un contesto storico, ecclesiale e comunitario che ha esigenze diverse da quelle che erano le urgenze della generazione che si impegnò nella stesura del nuovo testo delle Costituzioni dopo il Vaticano II, dall’altro.

“Per ciascuno di noi, per le nostre comunità, la vita religiosa è una storia: iniziando dalla grazia delle origini, essa si sviluppa nutrendosi di ciò che la Chiesa, illuminata dallo Spirito, attinge costantemente dal tesoro della sua fede” (Cst. 15).

Per una Congregazione giovane, soprattutto tenendo conto del fatto che tra la celebrazione del Vaticano II e il momento in cui iniziano i lavori che porteranno alle nuove Costituzioni sono ancora in vita quelle generazioni che hanno avuto una conoscenza personale del fondatore (morto nel 1925), la gestione delle origini non è mai cosa semplice. Affermare il vissuto religioso di Congregazione come “una storia” significa dire della volontà di non fare una mitologia dell’origine; inserendola piuttosto all’interno di quella stessa storia che non può essere che in divenire.

Una certa comprensione della mitologia tende a dichiarare l’immunità e l’intangibilità dell’origine, dove la (dovuta) fedeltà a essa non può essere declinata che nell’immutabilità della sua ripetizione. A dire il vero, il mito custodisce esattamente il contrario: l’origine non può essere ripetuta, ed è solo a questo prezzo che essa può rimanere operativa all’interno di ciò che a essa si rifà.

Il mito è una forma del linguaggio che sottrae alla storia qualcosa di cui la storia stessa non può fare a meno, perché esso dice qualcosa a cui la storia può attingere per accendere sempre nuovi orizzonti di senso. Il racconto del mito custodisce una dimensione antropologica, e in questo caso anche teologica, di cui la razionalità non è capace nel momento stesso di cui ne ha bisogno per declinarsi come storia (della ragione che crede).

In quest’ottica, le Costituzioni dehoniane interdicono una mitologia dell’origine, del fondatore, dell’esperienza dei primi confratelli: ossia prendono congedo dalla mera ripetizione in nome dell’affermazione dell’esperienza spirituale dehoniana proprio come storia. Facendo questo lavoro negativo, aprono però lo spazio all’altro versante possibile dell’origine come mito – quello più fecondo perché sa reggere il dinamismo della storia stessa.

In altre parole, mi chiedo se non sia possibile iniziare a pensare tutto il versante devozionale, tutto il repertorio dell’immaginario del Sacro Cuore, esattamente come mito: ossia come qualcosa che permane nella sua validità esattamente perché si può dire solo così – devozionalmente, appunto. Il lavoro da compiere sarebbe dunque quello di vedere l’apparato devozionale dell’esperienza di fede di p. Dehon non come un corredo che può essere trasposto e risolto nel linguaggio biblico, ma come ciò che può essere detto solo come e nella devozione proprio in ragione della referenza scritturistica già all’opera in p. Dehon stesso.

 Ciò che solo la devozione può dire

Rifiutando ogni mitologia delle origini, che le Costituzioni individuano sostanzialmente in una sostituzione delle Scritture con l’apparato devozionale, si apre la possibilità di collocare la Scrittura stessa in una posizione originante – appunto, di altri linguaggio, codici, scritture.

Nell’esperienza spirituale di p. Dehon c’è qualcosa di strutturante che non può essere detto con il linguaggio biblico; ma, appunto, chiede un altro linguaggio, quello della devozione, che si genera nell’allargamento ospitale della parola e del gesto proprio al linguaggio della Scrittura e della Scrittura come linguaggio.

La devozione al Sacro Cuore per i dehoniani sarebbe dunque quell’esperienza propria della fede generata dalla Scrittura che però non è più dicibile nella lingua della Scrittura stessa (ed è esattamente così che la Scrittura funziona come canone della fede) – proprio perché essa ha generato davvero altro da sé. In questo modo, a mio avviso, si può dare sostanza a quella spaziatura che le Costituzioni lasciano alla devozione come possibilità, espunta ma non esclusa, da rimodellare dopo di esse.

Spaziatura che nel linguaggio delle Costituzioni è resa operativa dal termine “corrispondere”: “(…) la nostra risposta suppone una vita spirituale: un modo comune di accostarci al mistero di Cristo, sotto la guida dello Spirito, e una particolare attenzione a quanto, nell’inesauribile ricchezza di questo mistero, corrisponde all’esperienza di Padre Dehon e dei nostri primi religiosi” (Cst. 16).

La prassi dehoniana della fede, costitutiva trattandosi di una congregazione di vita apostolica, si radica necessariamente “in una vita spirituale”; che, a sua volta, consiste in un modo comune di accostarsi all’inesauribilità del mistero di Cristo.

Questo stile condiviso chiede di essere declinato sia sincronicamente sia diacronicamente: il corrispondere all’esperienza fondativa si realizza nella comunanza del sentire della fede come contemporaneità alla scena originaria della Scrittura e alla storia umana in cui essa è immersa. Sono questi i tre livelli su cui si attesta, all’interno delle Costituzioni, la spaziatura per una ripresa a venire della devozione al Sacro Cuore.

Ed è esattamente per riferimento a questo snodo che le Costituzioni operano una giusta sospensione della devozione esattamente in riferimento a quel “corrispondere” che è il modo di rendere operativa la “grazia delle origini” nelle alterazioni storiche davanti alle quali la rivelazione cristiana di Dio non vuole essere né immune né estranea.

Partendo da quella che potremmo chiamare un’insofferenza per l’eccesso intimistico percepito nel linguaggio devozionale di p. Dehon, quando lega la sua esperienza di fede al Sacro Cuore, le Costituzioni obbligano ogni eventuale ripresa della devozione a una trasgressione rispetto a quelle che sono le sue coordinate originarie.

 Oltre la devozione come rappresentazione

Prima si sbarazzarsi di quell’intimismo è infatti bene interrogarlo a fondo; ossia, cercare di capire quale era la sua funzione nella strutturazione dell’esperienza spirituale di p. Dehon e dei confratelli della prima generazione. Detta in una battuta: esso era l’indice e la garanzia dell’immediatezza affettiva della relazione a Dio vissuta nella grazia delle origini.

Le Costituzioni, forse senza esserne pienamente consapevoli, delineano l’impossibilità storica, per le generazioni seguenti di dehoniani, di attingere a quella medesima immediatezza – senza però rinunciare con questo alla dimensione affettiva come fondamentale della rivelazione cristiana di Dio e specificità dell’esperienza di fede dehoniana.

Nel contemporaneo Dio non è più l’immediato dell’animo umano, e l’accesso alla sua presenza non può più essere lo scarto che l’autocoscienza prova nel ritorno alla immediatezza di sé. Giocando su una ripresa non esplicita di quella confiance che rappresenta la cifra sintetica dell’esperienza devozionale di Dio nel vissuto di Dehon, come fondatore dei Sacerdoti del Sacro Cuore, le Costituzioni ridislocano la possibilità reale della presenza di Dio nel tempo dei vissuti concreti degli uomini e delle donne: “Avidi dell’intimità del Signore, cerchiamo i segni della sua presenza nella vita degli uomini, dove opera il suo amore che salva” (Cst. 28).

L’intimità con Dio che Gesù rende possibile non è possibile come immediatezza, ma chiede il passaggio attraverso l’esperienza vissuta del tempo umano del vivere. Ne deriva una devozione per l’ascolto delle vicende umane che si declina come sensibilità per i loro intrecci nell’effettività quotidiana della socialità: “La comunità i lascia interrogare dagli uomini in mezzo ai quali vive. Essa si propone di condividere e sostenere i loro sforzi di riconciliazione e di fraternità” (Cst. 61).

Questa sensibilità per il tempo dei vissuti umani non è il romanticismo di una spiritualizzazione eterea, disancorata dalla esperienze concrete di ogni giorno, ma ha piuttosto la forma di una laboriosa pratica del vivere: “Il nostro lavoro, in forme diverse, retribuite o no, ci rende veramente partecipi della vita e delle condizioni degli uomini del nostro tempo (…)” (Cst. 48).

È interessante notare che il tempo dei vissuti umani, nel quale si cerca la presenza del Signore e dove l’intimità con lui ha la forma della partecipazione alle condizioni degli uomini e delle donne nostri contemporanei, viene colto dalle Costituzioni come un universo segnico che, quindi, chiede di essere decifrato per poter essere adeguatamente compreso.

Ed è proprio su questo punto che la decostruzione biblica della devozione al Sacro Cuore approda al suo esito più intrigante in vista di una sua possibile riconfigurazione.

Nell’esperienza spirituale di p. Dehon la devozione al Sacro Cuore di Gesù funzionava nel modo della rappresentazione – con tutto il suo corredo iconografico mediante il quale si rendeva fruibile l’affezione di Dio che è l’amore di Gesù verso l’umanità.

Rappresentando la dimensione affettiva del mistero di Dio e della sua relazione con gli uomini e le donne, la devozione al Sacro Cuore era un modo per disporre su di essa – per accertarsene e renderla certa, e quindi in fin dei conti per poterla in un qualche modo dominare. È esattamente questo potere di presa, racchiuso nella devozione al Sacro Cuore che la Congregazione eredita da p. Dehon, che viene disattivato dalla rimessa in gioco della scena biblica.

Qui l’interpretazione volta a creare quel “corrispondere” che lega l’esperienza spirituale di Dehon alla pratica della fede ispirata dalle Costituzioni ascrive alla prima un lavoro che essa non sarebbe mai stata in grado di compiere: “Il Costato aperto e il Cuore trafitto del Salvatore sono per Padre Dehon l’espressione più evocatrice di un amore di cui egli sperimenta la presenza attiva nella propria vita” (Cst. 2).

Non lo poteva fare perché “l’espressione evocatrice” apre su un ordinamento che è esattamente il superamento e la disattivazione della rappresentazione come dominio sul rappresentato.

 Segni evocativi

Infatti, le Costituzioni procedono a comprendere il costato aperto di Gesù crocifisso come “segno” (cf. Cst. 21) dell’amore rigenerativo di Dio. Se uniamo questa dimensione segnica a quella evocatrice prima accennata, ci troviamo nell’apertura della possibilità di immaginare una pratica della devozione al Sacro Cuore finalmente liberata dalla pretesa della rappresentazione. Il costato aperto di Gesù è il segno mediante il quale decifrare gli universi segnici del mondo e del tempo dei vissuti umani.

Ossia, l’eventuale nuova configurazione di una devozione al Sacro Cuore non dovrà funzionare come rappresentazione disponibile alla fruizione diretta del credente dehoniano, ma chiede una traslazione dell’esperienza spirituale verso l’effettività dei vissuti contemporanei, nel riconoscimento del loro essere segni affidabili della presenza operante dell’amore di Dio come riscatto dell’umanità.

È in questa prospettiva che, a mio avviso, vanno letti i due ossimori maggiori delle nuove Costituzioni: da un lato, quello che afferma l’adorazione eucaristica come pratica apostolica e pastorale (cf. Cst. 30); dall’altro, quello che vede nella celebrazione dell’Eucaristia “il rilancio continuo sulle vie del mondo al servizio del Vangelo” (Cst. 82). Che spingono verso una pratica cordiale della compartecipazione alle “aspirazioni dei nostri contemporanei, come possibile apertura di un mondo più umano (…) ritenendole attinenti alla venuta del Regno che Dio ha promesso e realizzato nel suo Figlio” (Cst. 37).

Oramai l’ambito proprio di un’eventuale devozione a venire è completamente traslato e ridislocato rispetto all’esperienza spirituale di fondazione. L’accesso all’intimità di Dio è nell’esteriorità del tempo dei vissuti umani concreti – mondo di segni evocativi dal quale sorgono gli “appelli che Dio ci fa giungere attraverso avvenimenti piccoli e grandi, e nelle attese e realizzazioni umane” (Cst. 35).

Alla fine di questo attraversamento delle Costituzioni dehoniane la furia della decostruzione biblica dell’apparto devozionale del Sacro Cuore appare non solo in una luce diversa, ma anche nella sua giusta luce: aprendo sul segno e sulla evocazione quali registri adeguati per modulare una tutt’altra, eppure effettiva, devozione dehoniana al Sacro Cuore.

Non basta dunque fermarsi al registro biblico, come si è tendenzialmente fatto per tutto il post-concilio, pensandolo come punto definitivo e insuperabile; ma bisogna, proprio in virtù della dischiusura reso possibile da esso su linguaggi altri e diversi che possono ciò che il registro biblico non può, iniziare a mettere seriamente mano a quella dimensione devozionale che fa parte dell’esperienza propriamente dehoniana della fede cristiana.

 

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